maandag 2 mei 2011

Guerra, catastrofe, democrazia, prigione — noi vogliamo la rivoluzione

In un tempo in cui le parole sembrano perdere il proprio significato, in cui il linguaggio del potere cerca di penetrare in tutte le nostre conversazioni, pensiamo sia ancora più indispensabile fare uno sforzo per parlare in modo chiaro. Finiamola di ripetere come pappagalli quel che dicono i giornali, che ci mostrano le televisioni, che i potenti vogliono farci credere. La questione non è volere ad ogni costo essere d'accordo, né convertire qualsiasi cosa, ma almeno parlare con la nostra bocca, coi nostri termini, coi nostri dolori e le nostre speranze.
 
La guerra o... la rivoluzione

 
L'inizio dei bombardamenti NATO contro le forze leali a Gheddafi in Libia ha segnato un passaggio fatale. Quella che senza dubbio era all'inizio un'insurrezione armata di una parte importante della popolazione contro il regime, a poco a poco si sta trasformando in una guerra militare. A parte alcune resistenze autorganizzate, che le autorità di ogni tipo definiscono «irregolari», l'insurrezione in Libia sembra essere degenerata in conflitto tra eserciti contrapposti. E allora non è a caso che gli «irregolari» laggiù siano stati sempre molto diffidenti di fronte all'«opposizione ufficiale» che ha copiato le gerarchie, i gradi, le strutture di comando dell'esercito di Gheddafi. Di fatto, la militarizzazione del conflitto ha affossato la possibilità di un rovesciamento radicale della società libica. Nuove uniformi, nuovi capi, nuove autorità costituiscono un ostacolo a chi vuole sperimentare altri rapporti sociali, rapporti di solidarietà e di reciprocità, di autorganizzazione della vita sociale tra le stesse persone al posto di un nuovo regime, di nuove strutture statali, di nuovi leader e nuovi privilegi.
Oggi, in Libia, si tratta di sostenere in ogni modo possibile gli insorti che hanno combattuto e che in futuro combatteranno ancora per un cambiamento profondo della società. Come diceva un compagno anarchico libico, si tratta ora di respingere il ricatto del potere — sia esso di Gheddafi, dell'opposizione ufficiale o della Nato — che intende soffocare la possibilità di una rivoluzione sociale spingendo verso una guerra meramente militare. Non dimentichiamo mai quelli che sono caduti combattendo per la libertà, che hanno sfidato un regime mostruoso non contando che sulle proprie forze, mettendo la propria vita in gioco.
 
La catastrofe o... la rivoluzione
 
CIò che è avvenuto in Giappone non è un disastro naturale, ma una catastrofe sociale. Ciò che è successo nelle centrali nucleari in Giappone non è un disgraziato incidente, ma la triste conseguenza di un mondo pieno di industrie che vomitano il loro veleno, di centrali nucleari disseminate ovunque che hanno messo un'ipoteca pesante e nefasta sulla vita e sulla libertà della terra, di un'economia che avvelena il pianeta e le menti, obbedendo solo alla ricerca di sempre più profitto per i potenti ed i ricchi.
In Giappone intere regioni sono attualmente circondate e militarizzate. Dopo aver costruito centrali nucleari, dopo aver fatto passare gli interessi dell'economia capitalista prima di ogni cosa, lo Stato giapponese si presenta ora come il solo attore in grado di salvare la situazione, di gestire il disastro, di «aiutare la gente». Istituendo un regime militare nelle zone devastate dell'isola, instaurando un regime di controllo scientifico che riduce gli abitanti nei pressi delle zone contaminate dalle radiazioni a semplici numeri, a tassi di radioattività o a cavie, lo Stato rafforza la sua morsa sulla popolazione. Impaurita dalla più che reale minaccia nucleare, la popolazione accorre verso il suo salvatore... Ma la causa di un problema non può essere al tempo stesso la sua soluzione; se la causa continua ad esistere, il problema si amplifica. Ed il problema non sono tanto i disastri naturali, ma questo mondo di industrie e di centrali nucleari, di metropoli invivibili e di campagne devastate. Il problema è se continuare a rendere permanente la catastrofe in questo mondo, o cambiare radicalmente strada, detronizzare l'economia ed il suo re denaro, smettere di credere agli scienziati, di contare sugli esperti per trovare soluzioni a problemi che loro stessi hanno creato e reinventare nuove maniere di vivere insieme. O la catastrofe di questo mondo pieno di orrori, o la rivoluzione sociale.
 
La democrazia o... la rivoluzione
 
Dopo le grida di vittoria che provengono dall'Egitto e dalla Tunisia, grida trasformate unilateralmente dai media di qui in omaggi popolari ala democrazia occidentale, un nuovo ordine è sul punto di prendere il sopravvento. I militari egiziani sparano di nuovo sulla folla in sommossa, le prigioni tunisine si riempiono di insorti che hanno combattuto per ben altro che un semplice cambio di regime, i diversi racket politici e religiosi fanno di tutto per cercare di recuperare e canalizzare la rabbia verso putridi nazionalismi od opprimenti religioni. Ma, nonostante la crescente repressione, i combattimenti continuano. Mentre in Egitto si susseguono gli scioperi selvaggi contro vecchi e nuovi padroni, intere zone della Tunisia restano ancora oggi fuori dalle grinfie del nuovo Stato e si autorganizzano per far fronte ai bisogni materiali, mettendo in pratica la reciprocità e la solidarietà al posto della competizione capitalista, respingendo dai villaggi sbirri, capi politici e magistrati, identificati come espressione dell'asfissia della libertà.
Tutto viene messo in atto per far dimenticare che esistono altre possibilità oltre all'alternativa fra dittatura e democrazia. Che è possibile sperimentare modi di vivere insieme che non siano guidati da uno Stato, che esso sia eletto o imposto. Che esistono altre scelte possibili piuttosto che subire uno sfruttamento feroce come nella maggior parte del mondo o rispettare una pace sociale fra sfruttati e sfruttatori  accontentandosi delle briciole come sovente accade qui.
Tutto viene messo in atto per far dimenticare ciò che i potenti di ogni luogo, democratici o dittatoriali, cattivi o gentili, feroci o umani, temono di più: una rivoluzione sociale che la faccia finita con le cause dello sfruttamento e dell'oppressione.
 
La prigione o... la rivoluzione
 
Per coloro che hanno scelto di percorrere il cammino della lotta per la libertà, per la vera libertà, alla fine non vi sono da sempre che due risposte da parte dei loro nemici: le pallottole o la prigione. Di recente alcuni anarchici italiani sono stati colpiti ancora una volta dalla repressione. Cinque compagni di Bologna si trovano in prigione, una sessantina di case sono state perquisite in tutta Italia. Accusati di "associazione a delinquere", lo Stato li imprigiona sperando così di frenare le lotte contro i centri di reclusione per clandestini e gli attacchi ai responsabili della macchina da espulsioni; in solidarietà con gli insorti dell'altro lato del Mediterraneo e contro le imprese italiane che traggono profitti del regime di Gheddafi per importare gas e petrolio ed esportare armi utili a schiacciare le rivolte (queste stesse imprese sono del resto candidate a costruire centrali nucleari in Italia, il che provoca altrettanta resistenza); la loro irriducibile scelta per la rivolta che ha come obiettivo le strutture del dominio.
Se parliamo di loro, è perché ci riconosciamo in quelle lotte, perché ne condividiamo, al di là delle frontiere, il desiderio di libertà che li spinge a battersi, con le parole e con le azioni. Nessuna prigione fermerà mai la nostra lotta per la libertà e la solidarietà con i compagni italiani consiste, come coi compagni incarcerati in altri paesi del mondo, nel continuare, sempre continuare, con la speranza nel cuore e i pugni chiusi, a minare il dominio.
 
Diamo fuoco alla polveriera.
Che soffi il vento della libertà, che si scateni la tempesta dell'insurrezione.
 
Alcuni anarchici
 
 
[Pubblicato en Hors Service 17, 24 aprile 2011, tradotto per Finimondo.org]