A proposito della rapina di Tubize in Belgio
Basta mezze parole e chiacchiere! Basta falsi dibattiti pubblici! Basta commenti infami dei giornalisti e di altri mercenari! Prima che zittiscano di nuovo tutto, prima che compiano il loro lavoro di neutralizzazione: parliamo chiaramente. Diciamo quello che pensiamo.
A Tubize [cittadina del Belgio francofono vicino a Bruxelles, NdT], un uomo è morto. Un giovane. Giustiziato da un gioielliere mentre lui e un complice cercavano di appropriarsi di qualche pietra preziosa in rue de Mons. Il nome di Tubize ci ricorda qualcosa. Per anni, quella cittadina è stata avvelenata dall’industria siderurgica delle Forges de Clabecq. Quella fabbrica che ha mangiato la carne e il sangue di tanti operai del posto, che ha sfinito e mutilato i loro corpi, fabbrica oggi chiusa. Al suo posto è stata costruita l’enorme prigione di Ittre. Certi hanno forse scelto di accettare di diventare secondini, di guadagnarsi il pane con la prigione, altri certamente no. Il giorno della rapina alla gioielleria, abbiamo capito che c’erano due giovani che non hanno voluto l’uniforme, che nemmeno hanno voluto rassegnarsi ad una vita di merda e che sono andati a cercare da un ricco quello che mancava loro. Il gioielliere, lui, non sa nulla di queste storie, che sono il triste privilegio di uno strato sociale diverso dal suo. All’epoca, non si è certamente trovato a fianco degli operai in collera e oggi ha confermato di nuovo l’idea che ha della maniera in cui bisogna trattare i poveri: abbatterli come parassiti.
Non diciamo che questo gioielliere (che si chiama Paul Olivet) sia particolarmente crudele. Semplicemente, fa parte di tutto quello strato sociale che da sempre succhia il sangue dalle nostre vene. È il compare del padrone della fabbrica, del banchiere, del politico, del giudice. È quello che incita la polizia ad abbattere i malviventi, a fare bene il loro lavoro di difensori dei ricchi e dei potenti. È quello che di sicuro ha applaudito ogni volta che, in questi ultimi tempi, dei rapinatori si sono fatti ammazzare dagli sbirri o da qualche gioielliere.
Come avrete capito, la storia non comincia e non finisce con questa rapina. Questo non è che un episodio della lunga storia della guerra fra quelli che si trovano in alto e quelli che si trovano in basso. E di morti ce ne sono tutti i giorni, e troppo pochi dalla parte dei potenti. Come quelle centinaia di persone che dormono, attualmente, nelle strade e nelle stazioni di Bruxelles, che si battono contro il freddo, mentre altri hanno dei milioni sui loro conti in banca. Come quelle decine di persone che ogni giorno hanno degli incidenti sul luogo di lavoro, sprecando la loro vita ad obbedire e ad arricchire un padrone in cambio di un salario. Come quelle migliaia di persone sprofondate nella miseria e nella depressione perché non riescono più a pagare l’affitto, perché non ne possono più di vivere come ratti nei bassifondi della società.
Disperati, dite voi? Ma le nostre armi non sono cariche solo di critiche; ognuna delle nostre pallottole contiene un desiderio, tutti i nostri desideri. Non è solo il disgusto che ci incita a portare la guerra a questa società, ai suoi rappresentanti, alle sue banche e ai suoi supermercati, alle sue fabbriche e alle sue prigioni; è soprattutto il desiderio di vivere come uomini liberi, senza dio né padrone. Ecco ciò che fa palpitare i nostri cuori, ecco ciò che trasforma le nostre mani in pugni, ecco quello che ci spinge a rivoltarci, a rompere la rassegnazione!
Nessun dialogo, nessuna pace, nessun appello alla calma – facciamola finita.
Qualche nemico del lavoro.
[Pubblicato en Hors Service 10, 25 ottobre 2010, tradotto per Non Fides]